Ilaria Casillo è vice presidente della Commissione Nazionale Dibattito Pubblico
Traduzione dal francese di Marco Galiero
La versione originale, in francese, di questo articolo è stata pubblicata dal quotidiano on line AOC – Analyse Opinion Critique il 30 aprile 2020 ed è disponibile qui
Da qualche mese, il mondo intero è confrontato alla crisi sanitaria legata al Covid-19. Pur trattandosi di una crisi banale, nel senso epidemiologico del termine, questa crisi, le sue presunte cause, la sua gestione e le sue conseguenze hanno messo in discussione in vari paesi i modelli di sviluppo, di mobilità, la pianificazione del territorio e d’urbanizzazione associati alla globalizzazione e al capitalismo.
Vari slogan circolati recentemente nella sfera pubblica e mediatica riassumono questa tendenza : “Non si tornerà alla normalità perché il problema è la normalità”; “Niente sarà più come prima”. Allo stesso modo, si moltiplicano le iniziative e gli appelli a pensare collettivamente e con i cittadini “il giorno” e “il mondo di dopo”. Lo stesso Presidente Macron ha dichiarato, durante il suo discorso ai francesi del 13 aprile scorso : “starà a noi preparare il dopo. Dovremo costruire una strategia nella quale ritroveremo il lungo termine”.
Questa crisi e la sua gestione hanno anche provocato un’inquietudine rispetto a dei provvedimenti presi per far fronte all’epidemia e che hanno come effetto la restrizione delle libertà personali e dei diritti individuali dei cittadini, e più in generale l’imposizione delle risposte e delle misure adottate.
Da questo punto di vista, il Covid-19 conferma la sua triste banalità nella misura in cui rivela la tendenza propria dei decisori quando si tratta di affrontare una situazione d’emergenza: reagire presto, consultare esclusivamente gli esperti per elaborare una risposta che in linea di principio si vuole a breve termine, rivolgersi poi ai cittadini con soluzioni già pronte, elaborate a porte chiuse con gli esperti. Se questa tendenza, questa etica della responsabilità propria della politica, è comprensibile, è comunque possibile metterla discussione.
Se il Primo ministro Édouard Philippe il 28 aprile ha dichiarato di voler affrontare un tema particolarmente controverso, quello del ricorso all’applicazione Stop-Covid, tramite “un dibattito e un voto specifico”, tale dibattito è stato al tempo stesso ritenuto “prematuro” e destinato, per il momento, al Parlamento.
Eppure, gli appelli della settimana precedente a un coinvolgimento dei cittadini nell’elaborazione delle prime misure relative alla fuoriuscita dalla crisi – in particolare del Piano di rilancio – sono chiari. Tali appelli sono stati espressi tanto dalla società civile (i cittadini tirati a sorte che partecipano alla Convention citoyenne pour le Climat) quanto da deputati, associazioni e sindacati (firmatari dell’appello NousLesPremiers).
Di fronte a queste numerose richieste di partecipazione e agli ultimi annunci del governo, ci si può porre la seguente domanda: nelle nostre società decisamente marcate da una svolta collaborativa, in sistemi politici che sempre più spesso di rivolgono ai cittadini per chiedere la loro opinione al di là delle scadenze elettorali, di fronte a dispositivi inediti di produzione e diffusione della conoscenza, è veramente possibile relegare i cittadini al semplice ruolo di destinatari e esecutori delle consegne governative?

Emmanuel Macron, presidente francese, durante una video conferenza dell’OMS, all’Eliseo. EPA/LUDOVIC MARIN / POOL MAXPPP OUT
Covid-19, fra rottura e continuità
Quando si verifica una catastrofe (terremoto, uragano, pandemia ecc.), essa segna innanzitutto una rottura dell’equilibrio fra il tempo reversibile – quello che si può chiamare normalità – e il tempo irreversibile – quello della rottura, in seguito alla distruzione o alla morte, per esempio (De Spuches, 2008). Questo scarto creato dall’evento stesso produce una discontinuità la cui gestione è cruciale. Innanzitutto, si tratta per il potere di organizzare la risposta logistica alla catastrofe-rottura, e in seguito di organizzarne l’accettazione collettiva.
Le analisi delle esperienze di gestione dei terremoti e della successiva ricostruzione in Italia negli ultimi decenni (il Belice nel 1968; l’Irpinia nel 1980; l’Abruzzo nel 2009) mostrano il limite degli approcci che consistono nell’identificare in maniera standardizzata e tecnocratica i bisogni e gli obiettivi della ricostruzione post-sismica, scartando qualsiasi riflessione, analisi e decisione della società direttamente interessata (Badami, 2008). Alcuni studi sottolineano persino la correlazione, addirittura la causalità, che esiste fra la gestione del rischio e della catastrofe e il deficit democratico; identificano, inoltre, l’inclusione degli abitanti nell’elaborazione di politiche pubbliche come chiave del successo per una gestione efficace del rischio e delle catastrofi (Calandra, 2012).
In realtà, troppo sistematicamente, nelle ricostruzioni che hanno fatto seguito ai terremoti, la logica del tetto (soluzione logistica di un problema d’alloggio) ha potuto prevalere su quella dell’abitazione (riattivazione dell’atto multidimensionale dell’abitare); la logica degli agglomerati urbani ha avuto la meglio su quella della produzione sociale della città; la logica del gesto e del determinismo architetturale ha relegato in secondo piano l’ascolto degli abitanti, delle loro pratiche di società, di mobilità e di socializzazione delle comunità direttamente coinvolte.
A ben guardare, questo approccio, pur mirando alla protezione dei cittadini, si rivela sistematicamente poco efficace in quanto basato su due rilevanti semplificazioni. La prima consiste nel fatto di trattare materialmente i cittadini come semplici recettori di politiche, di consegne o di misure da rispettare. La seconda consiste nel considerare che tutti i recettori si equivalgano, cioè che la particolarità delle società, il loro grado di coinvolgimento o di marginalità nelle decisioni pubbliche, il loro livello d’informazione e di conoscenza, il loro diritto d’essere informati e di partecipare alle scelte che li riguardano non sono pertinenti, e che questi elementi non vanno presi in conto nell’organizzazione delle risposte a una crisi. Queste due semplificazioni spiegano perché, per i decisori, una gestione partecipata della crisi non ha alcun aspetto interessante: considerato in tal modo, il cittadino non ha in effetti nessun valore aggiunto da apportare a una decisione.
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Eppure, queste semplificazioni mostrano tutti i loro limiti non solamente in termini d’efficacia (la maggior parte delle ricostruzioni post-terremoto che non hanno associato i cittadini alla loro concezione si sono avverate fallimentari), ma anche in termini di qualità e credibilità della risposta fornita (le gestioni di crisi non partecipative producono una diffidenza maggiore rispetto alla politica). Le catastrofi dunque – di qualunque natura esse siano – finiscono per creare un regime d’emergenza durante il quale conta solamente la capacità dei decisori a reagire in fretta sulla base di dati tecnico-scientifici. Quanto alla società, questa non ha che da adattarsi.
Responsiveness o responsibility? Il giorno dopo o il giorno stesso?
Di fronte all’emergenza, questa tendenza della politica a reagire “presto e sola” risponde all’esigenza, più che legittima, d’essere reattiva in tempi rapidi e preservare i cittadini, il territorio e tutto ciò che è danneggiato dal fenomeno catastrofico. Le emergenze, per definizione, non lasciano molto tempo per pensare e ben preparare l’azione. Allo stesso tempo, esse si caratterizzano spesso per il fatto di produrre una sovrapposizione degli ambiti d’azione che dovrebbe mettere in discussione la tendenza dei decisori a escludere i cittadini dalla gestione dell’urgenza. Si tratta della sovrapposizione fra responsiveness, che possiamo qui definire come la capacità di reagire nell’immediato e nella pratica a un problema non previsto (seppur prevedibile); e responsibility, concepita non nel senso weberiano del termine, ma piuttosto come capacità di assumersi la responsabilità di una risposta di fronte all’emergenza che mette in discussione la sua prevedibilità, la sua gestione sul lungo termine, le sue implicazioni etiche e societali, e che pone la questione di ciò che la crisi legata all’emergenza deve portare a cambiare nei principi, nelle strutture e nelle organizzazioni di un sistema politico, sociale ed economico.
L’esempio dei provvedimenti da prendere di fronte al Covid-19, e in particolare dei provvedimenti che riguardano le applicazioni che localizzano i cittadini, o che limitano fortemente le loro libertà, è in tal senso illuminante. Se certi provvedimenti provocano reazioni più vivaci rispetto ad altri, è proprio a causa della sovrapposizione di questi due livelli di responsabilità che essi comportano. Ora, tale sovrapposizione induce in errore i decisori (così come tutti coloro che chiamano i cittadini a riflettere solamente al dopo): l’errore consiste nel pensare che “l’oggi” (e la responsiveness) non possa essere aperto a una discussione coi cittadini, che non meriti uno scambio e una collaborazione ampia con i principali interessati dalle scelte fatte, per il semplice motivo che queste ultime dipenderebbero da un ambito d’azione ristretto e limitato. Ora, il virus Covid-19, la sua propagazione, i provvedimenti che comporta mostrano ancora una volta come l’articolazione fra il giorno dopo e “il giorno stesso”, fra la responsiveness e la responsibility, è al contrario il cuore stesso della sfida che si pone alla politica in tali circostanze.
Non riflettere sul ruolo dei cittadini nella gestione dell’emergenza equivale a pensare che ci sono temi che si possono – e che si devono, addirittura – sottrarre alla partecipazione. Tutto avviene come se il rischio non fosse una costruzione sociale, come se una società informata e collaborativa non fosse un punto di forza per far fronte a una grande crisi. Eppure, svariati esempi recenti mostrano che l’inclusione dei cittadini, delle comunità, degli stakeholder più esposti è un vero vantaggio per fronteggiare l’epidemia, hic et nunc.
Basti pensare alla città di Seattle e alla maniera in cui essa ha mobilitato e ha lavorato con i suoi “consigli di quartiere” per definire l’insieme dei siti nei quali ospitare le persone in quarantena – il che ha permesso di evitare le reazioni di rifiuto di tali centri provvisori da parte dei residenti che sono state osservate altrove nel Paese. Si può pensare anche alla politica messa in campo dalla città di Prato, basata su una collaborazione stretta fra la comunità cinese, il comune e il resto della popolazione. A Prato risiede e lavora la più grande comunità cinese in Europa rispetto alla popolazione autoctona: 21 000 persone su una popolazione di 195 000 abitanti (quasi l’11% della popolazione), 6 500 imprese cinesi.
Alla fine di febbraio, in seguito al ritorno di più di 1 500 Cinesi dal Capodanno cinese, il comune, senza imporre alcuna restrizione, ha continuato a lavorare, come prima della crisi Covid-19, in maniera molto partecipativa con le associazioni, i rappresentanti dei commercianti e la comunità cinese. Risultato: Prato è la provincia italiana con uno dei più bassi livelli di contagio. Un impegno costante e continuo nell’elaborazione delle risposte logistiche ha permesso di contenere il contagio e, soprattutto, d’evitare l’emergere di episodi di rifiuto o d’aggressività nei confronti della comunità cinese.
Basti pensare, in maniera più generale, a tutte le iniziative di mobilitazione d’attori della salute animale, d’aiuto reciproco tra vicini, di solidarietà, di condivisione di buone idee per famiglie monoparentali, che costituiscono altrettante strategie per gestire collettivamente un periodo e un mondo incerti. Varie questioni relative alla gestione della crisi Covid-19 illustrano come il setting democratico della decisione in regime d’emergenza meriterebbe di essere rivisitato: Quale didattica a distanza mettere in campo? Come bisogna procedere alla riapertura del Paese? A quali condizioni il ricorso alle app di geo-localizzazione può essere legittimo? Quali uscite si possono autorizzare? C’è veramente bisogno di sanzioni? Dove si situa il limes[1] delle eccezioni alle nostre libertà?
Da questo punto di vista, la crisi del Covid-19 può essere l’occasione di una vera discontinuità nella maniera di decidere in regime d’emergenza, tanto più che, così come numerosi esempi suggeriscono, più una decisione è co-costruita, meglio essa s’inscrive nei territori interessati e nei comportamenti di coloro che sono chiamati a metterla in pratica o a rispettarla.
Sapere, Credere, Decidere
Scienziati ed esperti sono chiamati a rivestire un ruolo di primo piano nella gestione di tutte le emergenze e le catastrofi. In tal senso, la crisi legata al Covid-19 è gestito nel segno della continuità. Non si tratta affatto di mettere in discussione l’importanza dei saperi scientifici e tecnici in circostanze come quelle che viviamo attualmente: la questione non è quella di sostituire o di limitare il ruolo degli esperti o di sostenere che i loro contributi non siano pertinenti nel momento di prendere una decisione. La questione è, ancora una volta, piuttosto d’ordine democratico. Due elementi sono particolarmente interessanti dal punto di vista della relazione fra saperi scientifici e democrazia in regime d’emergenza: il ruolo dei saperi dei cittadini e del diritto all’informazione di questi ultimi; e il peso dei saperi tecnico-scientifici nella legittimazione della decisione e nella sua giustificazione (tanto dal punto di vista tecnico-giuridico quanto dal punto di vista retorico).
Sul primo punto, una vasta letteratura scientifica e numerose esperienze di terreno hanno mostrato la diversità dei saperi presenti in seno alla società e il loro valore aggiunto (Netz, 2013; Sintomer, 2008). È appurato che l’inclusione dei cittadini nella fabbricazione dei dati e dei saperi scientifici produca una società più resiliente e delle scelte politiche maggiormente reversibili. In questo senso, ci si può chiedere quali sono i saperi presi in considerazione oggi dai comitati scientifici e task force e perché, per esempio “non ci s’immagina nemmeno di nominarvi un’infermiera, un medico di pronto soccorso, un caposervizio di rianimazione […] quella competenza professionale pratica, quella capacità di prendere decisioni operative nell’urgenza” (Bertho, 2020).
Sul secondo punto, il rischio, anch’esso individuato dalla ricerca (Pellizzoni, 2020), è che le tecnoscienze divengano sempre più degli attori politici a pieno titolo poiché esse si approprierebbero delle nostre democrazie favorendo un’iper-legittimità del discorso puramente tecnico-scientifico alla base di qualsiasi decisione pubblica. È quindi importante chiedere ai cittadini come vanno orientate, oggi e in futuro, le questioni di ricerca, e meglio esplicitare il legame fra natura e società alla radice di questa epidemia, per esempio. La società ha diritto di sapere quale scienza consiglia i decisori, considerata l’influenza politica che gli esperti e i ricercatori possono avere in queste emergenze. Quale etica, se non è più quella della convinzione (Hottois, 1996), guida oggi l’expertise e la ricerca?
In certi discorsi recenti d’uomini e donne del mondo politico e scientifico, i cittadini sono presenti solo in quanto responsabili, quando non colpevoli, della propagazione del virus. Al contrario, il loro diritto di avere a disposizione dati chiari, trasparenti, facilmente accessibili non viene riconosciuto, né considerato come una strategia efficace per renderli più coscienti e collaborativi. La sola cosa che viene chiesta ai cittadini sembra essere di fidarsi delle “autorità”, di credere a ciò che viene detto loro, nel nome di una divisione fra “quelli che sanno”, che consigliano “quelli che decidono”, e i semplici cittadini, che non fanno parte né degli uni né degli altri. Ci si potrebbe quindi porre la seguente domanda: si può gestire un’emergenza, sanitaria o non, escludendo la società da qualunque forma di costruzione della decisione?
“Fino a nuovo ordine…”
Come abbiamo visto, in regime d’emergenza, lo spazio di dialogo fra cittadini e decisori si limita alla trasmissione unilaterale di consegne, ordini, comunicazioni ufficiali, il che è, in una certa misura, comprensibile. L’assenza di dibattito pubblico invita a concentrarsi di più sul seguito: “il dopo” diventa così la promessa, fatta da più parti, d’un recuperodemocratico. Attraverso questa breve e incompleta analisi del ruolo dei cittadini in regime d’emergenza, abbiamo messo l’accento sulla questione democratica che si nasconde dietro la necessità di pensare collettivamente l’emergenza stessa, la sua gestione, la sua immediatezza. Abbiamo così avanzato l’ipotesi che una revisione del setting democratico di gestione di crisi sia inevitabile per accettare la rottura che l’emergenza porta con sé, e per meglio far fronte alla dose d’irreversibilità che essa comporta.
Ancor prima di porsi la domanda – giusta, legittima, lodevole – di come pensare insieme il giorno e il mondo di dopo, è possibile fare diversamente di fronte all’emergenza? Includendo oggi i cittadini nell’individuazione di ciò che è necessario e insostituibile (e non soltanto dal punto di vista logistico), sarà più facile domani dar vita a un dibattito pubblico sul modello di società che desideriamo. Tanto più che rispetto al Covid-19 i cittadini già producono nuove spazialità e socialità, nuove risposte, nuovi gesti e pratiche supplementari al fine di proteggere meglio se stessi, e di proteggere meglio gli altri. Il Covid-19, ancor più di altre situazioni d’emergenza e di crisi, ha rimesso in discussione le nostre abitudini, le nostre pratiche spaziali e sociali, le nostre conquiste democratiche, i nostri stili di consumo. Ha sconvolto l’ordine di priorità delle nostre conoscenze, dei nostri strumenti di lavoro. Avrà il potere di rimettere in discussione il modo di dibattere e decidere?
Ilaria Casillo interviene durante l’incontro di lancio del Débat Public “ImPactons” sulle politiche agricole.
Foto – Sacha Lenormand
NOTE
[1] Limes: termine latino per indicare una frontiera mobile, una linea di demarcazione cangiante.
BIBLIOGRAFIA
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