Questo articolo è uscito, diviso in due parti, sulla rivista Il Bolive dell’Università di Padova
Parte I – La nuova governance: confronto creativo
Quando il cambiamento è di tipo sistemico, la priorità non è più schierarsi dalla parte dei buoni contro i cattivi, ma mettere in discussione le speculari premesse implicite che le parti avverse danno per scontate. Il primo passo, oggi, come giustamente hanno sostenuto Bertuglia e Vaio (Complessità e modelli, 2011; Il fenomeno urbano e la complessità, 2019, Bollati Boringhieri, Torino) è avere chiara la differenza fra il funzionamento di un sistema semplice e quello di uno complesso, e rendersi conto che tutti i principali problemi del nostro tempo, come ha affermato il sociologo Ulrich Beck, sono connessi al fatto che i nostri corpi sono immersi nel XXI secolo, mentre le nostre menti e le nostre istituzioni sono rimaste al XIX.
Quello che qui mi propongo è di riprendere i temi della parte quarta del volume di Bertuglia e Vaio del 2019, intitolata “Politica della città, partecipazione e autorganizzazione assistita”, per provare a redigere un riepilogo facilmente comprensibile e memorizzabile sul come e perché le principali caratteristiche dei sistemi di governance ancor oggi dominanti sono divenute del tutto disfunzionali a una civile convivenza e quali sono invece le caratteristiche che possiamo riconoscere nelle situazioni che già oggi dimostrano di funzionare in modo più efficace, equo e durevole.
In altre parole, la prospettiva che propongo è la seguente: la nostra vigente democrazia ha esaurito le sue capacità di sistematica semplificazione del mondo e di controllo delle sue parti disassemblate. “It must be upgraded”. Il compito, la missione, consiste nel fare della capacità di mutuo apprendimento il principale collante della società civile.
Non conosco altro modo per farlo se non attraverso una continua comparazione fra i principi di base e di funzionamento di un sistema bene o male semplificabile (per brevità: “sistema semplice”) e uno non più semplificabile (“sistema complesso”). Mettere in primo piano i due modelli, il prima e il dopo, l’adesso e il futuro desiderabile, i due tipi ideali, permette di evidenziare che la transizione dall’uno all’altro passa attraverso l’accoglienza e messa in opera di due nuovi dispositivi, che sono il tema centrale di questo scritto.
(1) Una nuova figura professionale, sempre più spesso indicata come “facilitatrice/tore”, col ruolo di parte terza e garante delle nuove regole. Praticamente delle traghettatrici e dei nocchieri del passaggio alla riva della complessità. Una figura che svolge per l’instaurazione della governance del XXI secolo un ruolo analogo a quello ricoperto dai burocrati descritti da Max Weber nel passaggio dall’amministrazione patrimoniale a quella dello stato moderno.
(2) L’adozione sistematica di modalità di incontro e decisionali basate sul “confronto creativo” al posto di quelle “parlamentari”, divenute tipiche con la modernità. Più precisamente, ogniqualvolta sia necessario, in tutte le contingenze riconosciute come complesse, la sequenza “diritto di parola, contraddittorio, voto di maggioranza” va sostituita con la sequenza “diritto di essere ascoltati, moltiplicazione delle opzioni, co-progettazione creativa”. Le dinamiche di gruppo nei due casi sono opposte: in uno l’emergere di divergenze viene visto come occasione di schieramento, nell’altro come risorsa conoscitiva e premessa per l’elaborazione di diagnosi e progetti più adatti a navigare nella complessità.
La discussione è organizzata in due parti. Parte I – «La nuova governance: confronto creativo», che si sviluppa attorno a quattro voci: chi prende le decisioni, decisione e implementazione, il significato di “collaborazione”, il significato di “competenza professionale”. Parte II – «Ascolto attivo, il nuovo frattale», che mette a fuoco i luoghi comuni che ostacolano il passaggio da una comunicazione unidirezionale e gerarchica a una circolare, fra pari, dialogica, e il ruolo dell’ascolto attivo e della facilitatrice/tore nella messa in opera dei dispositivi tipici di una democrazia aggiornata.
In entrambe le Parti, gli esempi sono intesi a indurre le lettrici e i lettori ad aggiungerne altri e a discuterne.
1. Chi prende le decisioni
La nostra società è ormai un sistema molto complesso, ma i rituali decisionali, le gerarchie e le istituzioni sono rimasti quelle di una volta, adatti a dei sistemi più stabili e meno interdipendenti. In un sistema semplice, quando chi si trova ai vertici della gerarchia ordina di mettere in atto la decisione A, l’apparato esecutivo produce A o qualcosa di molto simile ad A. In un sistema complesso, quando chi sta ai vertici decide A, l’esito può essere B, C o F, sicuramente non sarà A. In altre parole “complesso” è un sistema che nessuno dei soggetti che ne fanno parte, per quanto potente, è in grado di governare, di orientare in un senso voluto. Dove va, quali sviluppi segue un sistema complesso dipende dalla capacità di tutti i soggetti che lo compongono di collaborare trasformando le proprie differenze in risorse conoscitive. Altrimenti il sistema impazzisce e coloro che lo compongono sono destinati alla frustrazione, a rimanere prigionieri di atteggiamenti di vuota denuncia e vittimismo. È una sindrome lancinante, uno stato di impotenza che tutti avvertiamo e abbiamo sotto gli occhi. Per trovare una via di uscita bisogna capire meglio perché non funzionano più né le tradizionali decisioni top-down né le loro forme di contestazione. I motivi sono parecchi. E siccome niente rende comprensibile la complessità quanto una buona storia, ne racconto subito una.
Sistema semplice. Cavour a metà del XIX secolo, si mette in testa di realizzare una linea di alta velocità fra il Piemonte e la Savoia, non ancora Francia. Convoca il parlamento subalpino, mette al lavoro un gruppo di illustri ingegneri e i lavori del traforo del Frejus, lungo 12 km, vengono iniziati nell’agosto del 1857 e completati nel settembre 1871. Anche allora ci sono state resistenze e critiche, incidenti ed errori, correzioni e innovazioni. Ma, pur con delle tecnologie assolutamente rudimentali rispetto a quelle odierne, in quindici anni il progetto è stato eseguito. Cavour ha ordinato “A” e il risultato è stato “A”.
Sistema complesso. Il governo italiano attorno al 2000 vuole realizzare un’aggiornata linea di alta velocità fra il Piemonte e la Francia. Il parlamento discute discute discute finché nel 2010 decide: si fa. Un gruppo di illustri ingegneri si mettono al lavoro e il progetto è presto pronto. Ma quel che succede poi è che gruppi sempre più numerosi di abitanti dei territori implicati (Val di Susa) denunciano allarmati i danni di tipo ambientalistico, economico e sociale che la realizzazione di questo progetto provocherebbe. Dopo cinque anni di manifestazioni di protesta, episodi di guerriglia urbana e processi giudiziari, il governo in carica decide finalmente di istituire un Osservatorio per coinvolgere le istituzioni locali e le rappresentanze della popolazione in un lavoro di co-progettazione; ma il clima è ormai profondamente esacerbato e solo una parte di costoro vi ha partecipato, arrivando comunque a un nuovo progetto, profondamente modificato e certamente più adeguato alle esigenze del territorio. Trascorsi 12 anni, e nonostante le attrezzature da guerre stellari a disposizione, i lavori sono ai primi passi, sotto la protezione dell’esercito. Il governo italiano ha ordinato “A” e il risultato è stato un coacervo di lettere impazzite.
La classe politica italiana, divisa anch’essa fra No-TAV e Sì-TAV, non si era accorta che nel frattempo la società era divenuta complessa e che altre parti del sistema, se non ascoltate, avrebbero reagito in consonanza con le premesse implicite loro proprie, con alta probabilità contrastanti e antagoniste. Il governo francese questo lo ha capito da tempo e infatti ha istituito fin dal 1995 il Débat Public, una procedura di ascolto dei territori interessati, gestita da una Autorità Terza, garante della inclusività e trasparenza del processo partecipativo.
Il problema dei nostri politici, e più in generale della nostra classe dirigente, è che i migliori di loro rimpiangono Cavour e di fronte ai fallimenti vanno alla ricerca dei colpevoli, di un altro leader o di un altro partito. Non sembra passare loro per la mente che il ricorso a procedure e metodologie per coinvolgere i cittadini nelle diagnosi e nelle scelte, consentirebbe sia di avere una visione più ampia e adeguata della realtà che una cittadinanza più informata, consapevole e responsabile.
Un illuminante confronto fra casi di buona e cattiva governance in tema di politiche metropolitane è quello fra i due processi decisionali sulla costruzione di un nuovo stadio, partiti contemporaneamente nel 2013 rispettivamente a Roma e Parigi (si veda: Casillo I. e Sclavi M., Una Città n. 240, luglio 2017). In Francia, dove si è fatto ricorso al Débat Public, il processo è durato un anno. La decisione definitiva, presa con il consenso di tutte le parti in causa, è stata di non fare quello stadio e di riqualificarne un altro già esistente. In Italia, il primo “progetto definitivo” (poi rimesso in discussione) è stato consegnato al commissario di Roma Capitale e alla Regione Lazio a fine maggio 2016 ed è composto di una relazione di 7041 pagine, corredata da 567 allegati e 50.000 pagine di relazioni specialistiche. Subito dopo il sindaco in carica di cognome Marino è stato defenestrato dal suo stesso partito, e la nuova sindaca, a quel punto di un altro partito, ha tagliato grattacieli, aggiunto palazzine e rimesso in discussione tutto. L’unica cosa sicura, a sei anni di distanza, è un pacchetto di rinvii a giudizio.
2. Decisione e implementazione
Per operare in modo intelligente in un sistema complesso, differenziato, interdipendente, turbolento, è necessario un metodo sperimentale, cioè aspettarsi che quello che si sta facendo conterrà degli errori e richiederà delle modifiche. Grazie agli errori e ai tentativi di correzione si riesce a risalire alle premesse implicite che stanno alla base dei comportamenti ed eventualmente a modificare anche quelle.
Il sociologo Michel Crozier, che dopo Max Weber è probabilmente lo studioso che ha più contribuito all’analisi del fenomeno burocratico, ha sostenuto già negli anni ’70 e ’80, due aspetti che qui ci interessano. Primo: che, essendo la burocrazia un’organizzazione incapace di autocorrezione, l’unico modo per mettere in discussione il suo modo di operare è attraverso delle drammatiche crisi. Si tratta non di riformare, ma di re-inventare. Secondo: che gran parte dei progetti sfornati dall’ENA (la prestigiosa scuola di PA francese) pur tecnicamente ineccepibili, rimanevano sulla carta per mancanza di capacità di recepire il punto di vista di tutti i soggetti interessati nei territori interessati.
Le esperienze di democrazia partecipativa in atto negli ultimi anni nel mondo ci fanno toccare con mano che un buon governo del territorio (efficace, equo e saggio) è possibile, e che esistono i metodi e le competenze per mettere in atto un’altra idea di pubblica amministrazione, inclusiva invece che escludente, dialogica invece che labirintica, amica della concretezza invece che astratta e soporifera. Si tratta di esperienze che mostrano con chiarezza, sia per i loro successi sia per gli ostacoli che incontrano, che senza la collaborazione fra abitanti interessati alle sorti dei loro territori e le varie amministrazioni dello Stato non si va da nessuna parte, e che tale collaborazione è possibile unicamente a patto di una drastica sburocratizzazione. Non si tratta di passare dal pubblico al privato, ma di rinvigorire la società civile, ridando spazio e forza a forme di democrazia più articolata e meno partitocratica. Non si tratta di “riformare” la burocrazia, si tratta di sbarazzarsene. La figura 2 illustra questo cambiamento e gli esempi che porto per sostanziarlo (si possono ritrovare tutti descritti anche sui vari siti web).
In un sistema complesso l’intero processo di diagnosi, attualmente inteso come individuazione della miglior soluzione che andrà poi implementata, va ripensato e sostituito con il compito di individuare “le migliori idee (o progetti, o design) da mettere alla prova”. Il processo decisionale è così costretto ad abbandonare il terreno della speculazione, delle alternative astratte, per incorporare al proprio interno i criteri e principi di una buona implementazione e, viceversa, quest’ultima diventa responsabile di un continuo flusso di decisioni con valenza politica. Tutti i soggetti implicati in questa filiera progettuale (volendo, dal Presidente della Repubblica allo sterratore) diventano, per la durata del processo, parte di un’unica “comunità indagante”.
Assumere che la realizzazione di un’idea progettuale possa (e in molti casi debba) essere intesa come “sperimentazione”, cioè come momento di verifica e messa a punto dell’idea stessa, è l’opposto dell’impianto giuridico-burocratico vigente, tipicamente irresponsabile rispetto agli esiti; e se, da un lato, apre la strada alla tanto invocata “progettazione adattiva” nelle imprese pubbliche e agenzie governative, dall’altro è la premessa per un dialogo fra cittadini e PA, di solito impedito dal fatto che gli abitanti vedono le politiche dal lato delle conseguenze nelle loro vite, mentre chi è al potere le vede dal lato di una retorica decisionale, che solo a posteriori farà i conti con la sua messa in opera. Questa importante e di solito trascurata distonia è ben documentata nel libro di Giuseppe Gangemi, Innovazione Democratica e Cittadinanza Attiva (2018), che descrive puntualmente, in modo quasi diaristico, l’emergere di questi contrasti e incomprensioni nella prima giunta Vendola alla Regione Puglia (2005-2012), durante la quale l’autore è stato consulente dell’Assessore alla Trasparenza e Cittadinanza Attiva, Guglielmo Minervini.
In Finlandia decenni di “sperimentazione della sperimentazione” in una pluralità di campi, dalla riforma del sistema scolastico a quella dei trasporti, dalla diffusione delle energie alternative al sistema della governance locale, hanno prodotto esiti giudicati talmente positivi, che nel 2015 il primo ministro ha affidato al Dipartimento di Design dell’Università Aalto e a due think tanks, Demos Helsinski e Avanto Helsinski, il compito di trasformare questo approccio in un protocollo abbastanza semplice da poter essere integrato nelle normali procedure decisionali e di implementazione a tutti i livelli.
In Italia, su questo terreno, della maggiore o minore contiguità e interrelazione fra decisione e implementazione, possiamo esibire esempi di casi estremi. Quello negativo e più preoccupante è l’assoluto disinteresse per non dire spregio per i modi, tempi, esiti dell’implementazione delle leggi da parte dei membri del parlamento italiano. Ne sono dimostrazione l’altissima percentuale di leggi che rimangono prive di regolamenti attuativi o dotate di regolamenti incomprensibili. Questo aspetto che dovrebbe suscitare vergogna, allarme, dimissioni, non occupa spazio nell’opinione pubblica. Tutta l’attenzione è sui contenuti delle leggi, su chi ha proposto cosa, ma cosa succede dopo pare interessare unicamente quando ci si trova di fronte a una catastrofe. Per il resto, sembra che la frase “non è di nostra competenza” assolva i politici al pari dei burocrati.
Un caso a rovescio, in cui la progettazione è scaturita dall’implementazione, è quello verificatosi nella ricostruzione post-terremoto in Friuli a metà degli anni ’70. In questo caso, la scelta vincente è stata di rifiutare di partire da una legge ad hoc o da un piano, per mettere invece il cantiere al centro: una pluralità di cantieri diretti dai gruppi di vicinato con l’assistenza di architetti di fiducia. Non c’è migliore garanzia di trasparenza e di efficienza dei lavori di un gruppo di vicinato, impegnato a usare i finanziamenti pubblici per ricostruire le proprie case e il paesaggio urbano in cui riconosce la propria storia e identità. Ma appunto, è rimasto un unicum, mai più ripreso neppure nei terremoti seguenti.
Un cambiamento importante e duraturo su questo tema si è invece verificato all’inizio degli anni ’90, con l’elezione diretta dei sindaci, i quali assumono agli occhi dei cittadini il ruolo di manager di una giunta della cui efficacia operativa sono garanti personalmente, senza la mediazione dei partiti. Questo ha aperto degli interessanti contrasti e attriti sia con una PA procedurale e settorializzata sia con la pretesa dei partiti di essere gli esclusivi portavoce della società civile. Di fronte a degli elettori che vogliono avere direttamente voce in capitolo sulle politiche che li toccano da vicino, le amministrazioni locali in modo sempre più deciso stanno aprendo anche in Italia il capitolo della democrazia partecipativa e deliberativa. Possiamo ricordare, a questo proposito, la legge sulla partecipazione – stile Débat Public – della regione Toscana del 2007, i “patti collaborativi” inventati da Labsus e approvati in pochi anni da più di 200 comuni, e parecchie altre esperienze che ci permettono di affermare che un terremoto politico, anche se di pochi gradi, era certamente in corso già prima dell’attuale pandemia.
3. Collaborazione
In una recente conferenza ad Amsterdam su The State of Conflict, ovvero su come appaiono le nostre società e istituzioni se le guardiamo attraverso la lenti dei conflitti che le attraversano, tutti gli interventi, con diverse angolazioni, hanno illustrato una tesi che condivido: non esiste soluzione dei conflitti piccoli o grandi nel mondo di oggi, se non vi è un’idea condivisa di futuro.
Uno dei relatori, Maarten Hajer, che insegna “Futuri sperimentali” all’Università di Utrecht, alla domanda: «How can we give people a new appetite for the future?» («Come possiamo invogliare la gente a pensare al futuro?») ha risposto con un duplice suggerimento. Il primo è una formula elaborata nel secolo scorso dai teorici della ricerca-azione: «Non cambierai mai qualcosa combattendo la realtà esistente. Per cambiare, costruisci un modello nuovo che renda quella realtà obsoleta». Il secondo suggerimento può essere sintetizzato in un’altra domanda: «Why talking about the future when you can visit it instead?» («Perché limitarsi a parlare del futuro, quando possiamo visitarlo?») Entrambi questi suggerimenti nascono dalla comprensione che non si può passare da un sistema semplice a uno complesso, se prima non si esce dal sistema semplice.
Quindi, per capire come dovrebbe cambiare il nostro sistema di potere e istituzionale, nonché i nostri mondi vitali, al fine di trovarci a nostro agio in una società complessa, dobbiamo prendere molto sul serio e imparare da specifiche e concrete situazioni in cui questo avviene. Queste esperienze, che non solo esistono, ma sono ormai anche molto numerose, di solito vengono trattate come “eccezioni che confermano la regola” e trattate con superficialità, sostanzialmente ignorate.
Qui di seguito ne riporto tre che, pur diverse fra loro e nate in ambienti e tempi diversi, esibiscono un impianto di base molto simile, che potremmo considerare una sorta di “archetipo” alla base di ogni governance efficace in una situazione complessa.
La prima sono gli esperimenti attuati da James Fishkin, della Stanford University, che ha messo a confronto gli esiti di un normale sondaggio di opinione con quelli di un diverso sondaggio che ha chiamato “deliberativo”. I normali sondaggi di opinione si presentano all’opinione pubblica come un metodo per evincere “cosa pensa la gente”, “quali sono le opinioni prevalenti in una collettività” su un certo tema. La premessa è che la società, la collettività, è formata da tanti individui – gli abitanti, i cittadini – ognuno separato dall’altro, chiamati a esprimersi su un certo tema. Al termine si contano le posizioni: il 36% si è espresso così, il 12% così, ecc., e su queste basi si discute su “quali sono i pareri della gente” su quel tema.
Fishkin col suo “sondaggio deliberativo” ha dimostrato che chiedere alla gente “cosa pensa”, al di fuori di un contesto dialogico, è un inganno epistemologico: quando tu domandi alla gente cosa preferisce fra A, B o C, il risultato non è “cosa la gente pensa”, ma “come risponde alla tua domanda”. Per pensare si deve, come minimo, poter mettere in discussione la domanda. L’esperimento messo in atto da Fishkin è consistito nel ricontattare le persone che avevano costituito il campione di precedenti sondaggi e proporre loro di incontrarsi fisicamente per un paio di giorni, per informarsi e discutere assieme su quel tema. Queste persone hanno dunque occasione di incontrarsi e di avere a disposizione tutte le informazioni che ritengono necessarie per farsi un’idea del problema: possono leggere, discutere tra loro, ascoltare esperti. L’esperimento ha dimostrato scientificamente che, se al termine dei due giorni si rifà a ognuno la domanda iniziale, in media il 70% dei partecipanti ha cambiato opinione. La differenza fra “opinioni grezze” e “opinioni informate” è dunque enorme. Di solito il cambiamento consiste in opinioni più articolate, corrispondenti a una più approfondita comprensione del problema.
Proviamo allora a elencare “cosa manca” a un sondaggio normale rispetto a uno deliberativo: (1) i membri del campione si incontrano faccia a faccia, (2) in veste di co-protagonisti e in uno spirito di mutuo apprendimento, (3) con la possibilità di condurre comuni ricerche di approfondimento, grazie al ricorso a esperti e testi ritenuti utili. Non è poco.
Questo esperimento ha un paio di implicazioni di enorme interesse implicite nella scelta del termine “deliberativo”. La prima è che aiuta a riflettere sulla natura dialogica del pensiero e di noi esseri umani e che la sua mistificazione non va sottovalutata; la seconda è la trasposizione nel campo politico, in quanto suggerisce che i sondaggi sulle “opinioni grezze”, per quanto interessanti e a volte divertenti, non possono sostituire forme più autentiche di partecipazione alla formazione delle decisioni pubbliche. Un regime democratico dovrebbe favorire e promuovere una società civile permeata di contesti di mutuo apprendimento.
Una delle obiezioni che subito vengono in mente è che gli incontri faccia a faccia sono attuabili solo nei piccoli gruppi e che i comuni cittadini, oltre a votare ogni tot anni, sono in grado di esprimersi su dove mettere la panchina nei giardinetti, ma non su temi complessi come il traffico urbano, il sistema scolastico o la raccolta dei rifiuti. Il che ci conduce al secondo caso.
Il secondo esempio, preso da una tipologia ormai ricca e ampia, è l’esperienza della Convention Citoyenne pour le Climat (CCC) che ha avuto luogo in Francia nel corso del 2019-2020. Il format di base è quello del sondaggio deliberativo, il soggetto collettivo operante è anche qui un campione statistico stratificato (in questo caso di 150 persone, rappresentative di tutti i cittadini francesi), ma ai tre punti sopra elencati se ne aggiunge un altro molto più ambizioso: su mandato di Macron, sono chiamati a «elaborare una serie di proposte legislative tese a ridurre le emissioni climalteranti almeno del 40% entro il 2030 in uno spirito di giustizia sociale». In questo caso dunque non basta il mutuo apprendimento, è necessario un contesto, un contenitore che permette di elaborare, con l’aiuto di una adeguata metodologia e di tutti gli esperti del caso, una visione condivisa e le proposte deputate a realizzarla. Sapendo che di questo gruppo fanno parte sei minorenni, un’infermiera a domicilio, operai e impiegati, oltre a professionisti vari, provenienti da città e paesi ai capi opposti del Paese, chiunque, a cominciare dai diretti protagonisti, deve pensare che si tratta di una missione impossibile.
Eppure ha funzionato. Grazie al fatto che si è potuto attingere a competenze di facilitazione presenti in Francia da molti decenni, alle expertise e finanziamenti necessari, e che si è stati in grado di “darsi tempo” (i lavori sono durati nove mesi), questa congrega di “cittadini qualunque”, si è via via trasformata in una vera assemblea deliberativa e ha raggiunto, su una tematica così complessa, dei risultati che appaiono incredibilmente coerenti, in prospettiva efficaci e saggi. Una delle partecipanti minorenni ha dichiarato a The Guardian, a lavori finiti: «All’inizio non sapevo quasi nulla sul clima, ma grazie a questa esperienza ho imparato ad ascoltare, a dibattere e che esiste l’intelligenza collettiva». Assolto il loro mandato presidenziale, i 150 hanno autonomamente deciso di non disperdersi, ma di costituirsi in un’associazione: “Les150ccc” . Consapevoli che, per obbligare il potere a tener conto delle loro indicazioni, è necessario che l’insieme dei cittadini francesi condividano questi risultati, hanno pubblicato le loro proposte su un apposito sito (https://propositions.conventioncitoyennepourleclimat.fr/), che ha visto un milione di accessi nella prima settimana. Stanno inoltre andando in giro per tutta la Francia, invitati fin nei paesini più minuscoli, a divulgare i metodi e gli esiti del loro lavoro e l’informazione che «la democrazia deliberativa non è un gioco, non è un gadget, qualcosa di futile, ma, al contrario, è qualcosa che può produrre davvero intelligenza e consenso» (dall’intervista di Agnese Bertello a Loïc Blondiaux, membro della Commissione Nazionale Dibattito Pubblico e del Comitato di governance della Convention, in Una Città, n. 268, 2020:).
Chi sostiene che dei “normali cittadini” non possono occuparsi di trasporti e così via è invitato a leggere le proposte prodotte dai 150, relative a cinque tematiche: Trasporti (11 obiettivi), Consumi (5 obiettivi), Abitazioni (3 obiettivi), Produrre/Lavorare (10 obiettivi), Nutrirsi (14 obiettivi).
La domanda: «Come mai 150 cittadine e cittadini presi a caso riescono in nove mesi a raggiungere un obiettivo che il parlamento francese aveva ufficialmente in agenda dall’Accordo sul Clima di Parigi del 2015?» viene spontanea e la riprendo a conclusione di questo paragrafo, dopo aver accennato anche al terzo esempio.
Il terzo esempio riguarda la nascita, per gioco e serendipity, di quella che è la forma organizzativa capace di valorizzare le complessità, più semplice e più diffusa, adottata nel palazzo delle Nazioni Unite come nel villaggio africano, nelle periferie delle grandi metropoli come nella gestione di grandi imprese e corporation. L’aspetto che qui mi interessa sottolineare è che, pur essendo gli ingredienti da cui nasce l’Open Space Technology (OST) tutti rigorosamente extra-accademici, il suo impianto è lo stesso dei due sopra ricordati. L’inventore è un foto-giornalista, antropologo, appassionato di sistemi complessi che si chiama Harrison Owen.
Mi limito qui ad elencare cosa c’è nell’OST che è anche caratteristico degli altri due esempi sopra riportati, e, per converso, cosa di tutto questo manca nei dispositivi vigenti. Ogni dispositivo di felice gestione della complessità e di democrazia deliberativa si basa sui seguenti principi.
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Un format basato sull’alternanza di lavori in plenaria e in piccoli gruppi, entrambi con sedute circolari. Ogni singolo partecipante può prendere la parola sia in plenaria che nel piccolo gruppo, ma è consapevole che il faccia a faccia del piccolo gruppo aiuta a dare concretezza e pragmaticità alla discussione.
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Ognuno si sente ascoltato e accolto nonostante le diversità e divergenze, che anzi sono considerate importanti contributi. Ognuno e ogni piccolo gruppo è consapevole che il tutto è più della somma delle parti e che il suo è un contributo che deve essere letto alla luce di tutti gli altri.
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Prima si fanno emergere tutte le posizioni e si fanno domande non per criticarle, ma per capire le ragioni che le sottendono (ascolto attivo), poi ognuno si fa carico di cercare quali interessi e preoccupazioni comuni possono stare alla base di proposte anche divergenti e si impegna nella esplorazione di possibili soluzioni di mutuo gradimento (moltiplicazione delle opzioni, buone pratiche).
Mi fermo qui per far notare che nelle pratiche conversazionali tipiche della società moderna (siano queste un’assemblea di condominio, una discussione in famiglia, un comitato direttivo o un’aula parlamentare) mancano quasi completamente tutti e tre questi momenti interdipendenti.
In particolare, per riprendere un filo rimasto in sospeso, i partiti politici, rispetto a un campione casuale di cittadini che operano in un dispositivo di democrazia deliberativa, hanno i seguenti handicap: (1) il loro format ostacola l’apprezzamento della diversità e divergenza come fonte di conoscenza; (2) le opzioni di partenza, proposte dai grandi capi, sono quelle che contano e sulle quali ci si misura; and, last but not least: operano in uno spazio/tempo che esclude la possibilità di accogliere per davvero l’ottica dell’implementazione. I partiti politici, per ristabilire un dialogo con i cittadini costruttori di comunità, dovrebbero considerarsi meno degli incanalatori della volontà dei cittadini e più dei garanti della diffusione del gioco dell’ascolto nella società civile, e fra questa e le istituzioni rappresentative.
Un fondamentale anello per favorire questo passaggio è illustrato nel punto che segue, che riguarda il ruolo e la concezione della “competenza professionale” nei due sistemi, semplice e complesso. Si tratta di un aspetto talmente vitale che ad esso sarà dedicata l’intera Parte II di questo scritto.
4. Competenza professionale
La formazione dei professionisti nella prima modernità è strettamente collegata all’accesso a competenze, ruoli e responsabilità escludenti piuttosto che dialogici e inclusivi. L’ethos e eidos dominante nelle università, a parte poche eccezioni che di solito sono anche eccellenze, tradotto in volgare è del tipo: «Ho studiato, so io come si fa, non rompetemi le palle. Al massimo se proprio necessario, posso confrontarmi con alcuni colleghi». Potere e accaparramento di informazioni e di conoscenze sono sempre andati a braccetto sia nell’antichità (il potere delle caste religiose) sia nella modernità, e non è casuale che la burocrazia dello stato moderno sia caratterizzata, come dice Max Weber, dal “segreto di ufficio”. Con l’avanzare della modernità, le comunità di pratica, il learning by doing, la bottega con i lavoranti, spariscono e il sapere trasmesso nelle aule universitarie, liberato dalle contingenze delle situazioni concrete, procede attraverso sistemi di catalogazioni che presentano come rilevanti alcuni aspetti e irrilevanti altri, specialmente quelli che si configurano come “unici” non riscontrabili altrove.
Il contrario del professionista escludente è il professionista che Donald Schön, all’inizio degli anni ’90, ha chiamato “riflessivo”, che l’architetto Giancarlo De Carlo ha chiamato “inclusivo” e John Forester “deliberativo”. In questa sede preferisco parlare di “professionista inclusivo”, perché la conversione dei professionisti da escludenti a inclusivi è la sfida principale per adeguare la società e la democrazia ai requisiti e parametri del mondo d’oggi.
I burocrati e i professionisti che, nella società moderna, sono i capisaldi sui quali si reggono i poteri autoritativi delle istituzioni, e che, rispetto all’uomo della strada, si pongono come i guardiani dell’arco delle possibilità consentite, hanno nel passaggio alla seconda modernità questi due grandi handicap: non hanno mai imparato a costruire contesti di mutuo apprendimento, e non sanno confrontarsi in modo dialogico con la contingenza delle situazioni uniche e concrete. La inamovibilità della burocrazia affonda le radici negli stessi terreni sui quali si reggono l’autorevolezza e il potere esclusivo di qualsiasi altra professione. Nella seconda modernità il cambiamento non è più affidato alla lotta di classe, ma alla conversione dei gatekeepers. Fare i conti con i luoghi comuni che impediscono questa conversione è il tema della seconda e ultima parte di questo scritto.
Parte II – Ascolto Attivo, il nuovo frattale
Bertuglia, Greco e Vaio nell’aprire questo dibattito su “La città dopo la pandemia”,, scrivono: “La crisi mondiale scatenata dal covid-19 ha imposto l’esigenza di cambiare il modo di vivere in comune, come prima era accaduto soltanto a seguito di guerre, di rivoluzioni o dell’instaurazione di dittature e totalitarismi”.
A me sembra che il cambiamento in atto sia più radicale di quello avvenuto, per esempio, dopo le guerre mondiali e anche con la rivoluzione russa e l’avvento del socialismo reale. Il cambiamento oggi in atto riguarda direttamente quel totem e tabù, quel frattale che configura lo spartiacque fra chi sa e chi non sa, la cui permanenza è alla radice della vacuità che ha impedito di occuparsi di come costruire una democrazia e anche un socialismo reale con gli anticorpi alla violenza e autoritarismo, e di riconoscere la dovuta importanza a coloro che su questo concentravano la loro attenzione. Nelle mille compenetrazioni e sovrapposizioni fra globalizzazione, digitalizzazione ed emergenze (sanitaria, economica, sociale, ambientale) l’antico frattale non è che si sta sciogliendo (metafora della società liquida), è più giusto sostenere che sta esplodendo in mille pezzi.
Dalla fine degli anni ’60 del secolo scorso in poi, è stato sempre più difficile negare che la sfera familiare, grazie alla rivolta giovanile e al femminismo, stava diventando un sistema complesso, dove nessun attore poteva omologare tutti gli altri. Sarebbe stato molto utile al sistema famiglia, nel passaggio dal semplice al complesso, poter riflettere sui cambiamenti che questa transizione comporta e sui vecchi e nuovi saperi da mettere in atto. Ma sia la scuola, sia la PA, due istituzioni che dovrebbero incorporare e rappresentare anche metaforicamente i gradi più alti del processo di civilizzazione, si trovavano totalmente impantanate nella vecchia cornice. E invece di fare da traino hanno fatto da freno. Poi è arrivato lo tsunami della digitalizzazione/globalizzazione e adesso tutte le sfere sono nel caos, in quanto, essendo divenute tutte complesse, continuano a essere governate da competenze e comportamenti inadeguati.
Nei paragrafi che seguono, mi propongo di illustrare questa specifica conflittualità dal punto di vista dei meccanismi identitari, culturali e antropologici che impediscono o favoriscono il cambiamento. In particolare, ho diviso l’esposizione in due parti: A. Il pantano dei luoghi comuni e B. Che fare? Gli esempi portati riguardano: le nuove dinamiche relazionali e la pervasività dei luoghi comuni; la stretta connessione fra esclusività del sapere e un’idea della democrazia che si esaurisce nel confronto parlamentare; e infine i savoir faire della facilitatrice/tore, non a caso a volte paragonata alla levatrice, che consentono e promuovono l’emergere e affermarsi del nuovo frattale, imperniato sull’ascolto attivo.
C’era del vero nello slogan del ’68 «una risata vi seppellirà», ma, come insegna l’umorismo, per poter ridere abbiamo bisogno di una battuta e di un significato alternativo che rimpiazza quello dato per scontato in precedenza. Al momento, nonostante vi siano in tutte le sfere dell’agire abbondanti buone pratiche, mancano a livello di opinione pubblica sia l’attenzione per le stesse sia le battute che fanno scattare quella che Freud ha chiamato “doppia illuminazione”. Spero che quanto segue possa aiutare.
La sindrome da indebita ingerenza
Prendo il via da un paio di esempi. Il primo riguarda la madre di un ragazzo di un Istituto Superiore che, attiva in alcune associazioni di volontariato, chiede un appuntamento al preside per proporgli di tener aperta la scuola di pomeriggio e consentire l’uso dei suoi locali a iniziative presenti sul territorio. La risposta del preside è irremovibile: «Non posso dare questo consenso per motivi di sicurezza». Una volta, di fronte a una risposta come questa da parte di un’autorità dello Stato, normalmente il cittadino si rassegnava e subiva. Lui, il preside, conosceva le leggi e lui decideva. Se diceva no, era no. Quell’argomento era chiuso. Punto. Ma la reazione della signora è di tutt’altro tipo. «Io so che in altre scuole lo fanno. E se lo fanno loro perché non potremmo farlo anche noi?» Nella reazione «Signor preside io le chiedo di informarsi per capire in base a quali regole e quali provvedimenti altri istituti restano aperti anche il pomeriggio» è contenuta l’idea di un procedimento di costituzione del diritto pubblico completamente diverso da quello autoritativo vigente. Al preside che spiega che «il regolamento non prevede l’apertura pomeridiana» e che in ogni caso «non abbiamo i soldi per pagare la sorveglianza o i bidelli» ecc., una società liquida costruttiva oppone un modo di operare basato sull’andare a vedere come altrimenti si fa altrove.
Un secondo esempio lo traggo da un’esperienza di processo partecipativo sulla localizzazione di impianti di compostaggio in una grande città italiana. Uno degli abitanti dichiara: «A causa del traffico ci metto un’ora e mezzo per andare al lavoro in auto la mattina. Se immagino che sulla stessa strada passeranno duecento camion di umido, impazzisco. O mi spiegano come risolvono questi problemi o mi sdraio in mezzo ai cantieri e impedisco che i lavori procedano». A pensarla come lui sono in parecchi, organizzati in comitati “No agli impianti di compostaggio”. Di fronte a queste accese contestazioni, le reazioni presenti fra la dirigenza dell’Azienda di raccolta e trasformazione dei rifiuti vanno da “È la solita reazione Nimby, con loro non si può discutere», a «Ne abbiamo già tenuto conto e ne terremo conto, sappiamo noi come si fa».
In entrambi questi casi la “pretesa” della genitrice di avere voce in capitolo nella decisione di aprire o no la scuola alla comunità locale o quella del cittadino di discutere della rete dei trasporti, viene intesa, dal preside e dai dirigenti dell’Azienda, come una “indebita ingerenza”, un segno di mancanza di rispetto per le loro competenze e attribuzioni di comando, mentre dai cittadini come diritto di essere informati sul ventaglio delle esperienze e dei know how praticati altrove, prima di decidere.
La genitrice e l’abitante che va al lavoro in auto vedono il diniego delle controparti come un segno di incompetenza e pochezza manageriale e considerano i regolamenti a cui si appellano dei rituali e gerghi astrusi dietro i quali si nasconde la irresponsabilità dei decisori. Viceversa il preside e i dirigenti dell’Azienda immaginano infastiditi una scuola o una città governate “da una masnada di cittadini incompetenti.” Questa visione dicotomica: “o noi competenti o loro dilettanti allo sbaraglio” è, come possiamo ben vedere non solo in Italia, una pericolosa profezia che si auto-realizza.
Esiste infatti una terza possibilità fra l’andare alla malora grazie ai competenti oppure grazie agli incompetenti, che consiste nel trattare la diversità non come base per un conteggio di numeri e di percentuali, ma come decisiva fonte di conoscenza qualitativa.
Su competenza e diversità esiste un’interessante ricerca scientifica ad opera di un ricercatore di CalTech di nome Scott Page, il quale ha costruito con il computer un modello matematico per studiare l’ottimizzazione delle condizioni e strategie nella soluzione dei problemi. Il modello metteva a confronto gli esiti di gruppi composti dai migliori esperti con quelli di gruppi scelti in maniera casuale, e il risultato inaspettato è stato il seguente: quasi sempre “la diversità dava scacco alla competenza” (Page S., 2007, Making the Difference: Applying a Logic of Diversity, Academy of Management Perspectives, 21, 4, pp. 6-20– L’ espressione usata dall’autore è: «In my model diversity trumped ability»). In altre parole, se uno stesso problema viene presentato a due gruppi, uno dei quali composto esclusivamente di esperti e l’altro “differenziato”, in cui cioè è presente un’ampia varietà di persone, il secondo gruppo arriva sistematicamente a soluzioni migliori. Il motivo è che del secondo fanno parte anche gli esperti, mentre del primo solo gli esperti. Ovvero: l’inclusività è vincente. Piuttosto che di scacco alla competenza, sarebbe dunque più giusto parlare di un principio della maggiore efficacia delle decisioni inclusive.
L’outing su sapere esperto/sapere comune e la democrazia.
La dicotomia fondamentale sulla quale il professionista escludente costituisce il proprio spazio e il proprio agire esclusivi è quella fra “sapere comune” e “sapere esperto”.
Anche a questo proposito riporto un caso che ho descritto più lungamente altrove. In una certa provincia, gruppi di genitori si sono organizzati e mobilitati, e hanno raccolto decine di firme per chiedere di includere nei programmi e negli edifici delle locali scuole materne ed elementari anche classi improntate al metodo Montessori. Le reazioni sono di due tipi: da un lato numerose giovani insegnanti si dicono molto interessate e si iscrivono ai corsi della Associazione Nazionale Montessori, per ottenere un attestato che consenta loro di operare in questo senso. Ma questo non fa notizia. Ciò che fa notizia sono le levate di scudi di chi ritiene che non sia competenza dei cittadini avanzare proposte del genere. La richiesta dei genitori è bocciata contemporaneamente da chi, nella scuola, sostiene che l’approccio Montessori è troppo arretrato rispetto agli avanzamenti pedagogici già in atto e da chi, all’opposto, sostiene che si tratta di un metodo talmente avanzato che il normale funzionamento della scuola italiana potrebbe solo stravolgerlo. In entrambi i casi vi è un chiaro sentimento che la propria competenza professionale è minacciata e oltraggiata, e si passa alla riscossa rendendo espliciti i confini da non oltrepassare. È interessante notare che tutti, pur nelle divergenze, fanno appello alle stesse identiche similitudini e luoghi comuni. Eccoli.
L’outing di chi pensa che la Montessori “è troppo arretrata”: «Succede sempre più spesso che il comune cittadino immagini di poter dettare la ricetta per la cura della sua malattia al medico, indichi la strada per arrivare a una sentenza favorevole all’avvocato, ritenga legittimo pretendere da parte della scuola l’applicazione del metodo a lui più congeniale per l’educazione del figlio. […] In ambito educativo prestare attenzione ai singoli bambini, confrontarsi con le loro famiglie, chiedere e accogliere suggerimenti in merito a strategie che possono rispondere meglio a particolari necessità non significa accettare qualsiasi richiesta. Non significa sposare metodi educativi solo per rispondere alle aspettative o all’insistenza di alcune (anche molte) famiglie».
L’outing di chi pensa che sia “troppo avanzata”: «Vi immaginate un qualsiasi settore professionale che fa scegliere agli utenti o ai clienti l’essenza stessa della propria competenza? Pensate a un chirurgo che entra in corsia il giorno degli interventi e si rivolge ai degenti che deve operare: ‘Allora ragazzi, come procediamo oggi? Volete un lavoretto mini-invasivo con assistenza robotica o andiamo col vecchio bisturi?’ I pazienti salterebbero dalle finestre. Se accade nella scuola, invece, nessuno si meraviglia […] Troppi genitori non si rendono conto che queste sono cose da professionisti, che la democrazia qui non può nulla, che un metodo non si vota, e abboccano, si sentono coinvolti nelle scelte delle istituzioni».
L’intero confronto s’impernia sulla contrapposizione fra chi sa e chi non sa, fra chi possiede la conoscenza e chi no, e da questo discende lo sviluppo di un campo conversazionale che procede sui binari dell’ “io ho ragione, tu hai torto”, “giusto, sbagliato”, “amico, nemico”, “o con noi o contro di noi”. Dare spazio a posizioni divergenti è la débâcle, la rinuncia a esercitare la propria “responsabilità istituzionale e scientifica”. La possibilità di dialogo (inteso come ascolto attivo e moltiplicazione delle opzioni) non è contemplata. O voto a maggioranza (fatto coincidere con “democrazia”) o parere insindacabile degli esperti.
Se si vuole cambiare scenario, uscire da questa litigiosità dalla quale non si impara niente di nuovo, bisogna resistere alla tentazione di entrare nel merito degli argomenti così impostati e dedicare invece l’attenzione a re-impostare i rapporti su basi diverse. Bisogna andare senza tanti complimenti a collocarci nel sistema complesso. L’incipit, non dovrebbe meravigliare, è il sapere di non sapere.
Competenza ed epistemologia, per una buona uscita dalla Pandemia
C’è una comune “cornice”, uno stesso frattale, che tiene insieme e dà coerenza, nella modernità, ai rapporti di potere e concezione dell’autorità in seno alla famiglia, nelle professioni, nella impalcatura autoritativa (cioè autoritaria e gerarchica) del diritto pubblico. Ognuna di queste sfere, ci ricordava Heinz von Foerster nel corso di un convegno tenutosi a Bolzano molti anni fa, si regge su un’idea della conoscenza come di qualcosa che alcuni possiedono e altri no. Chi ha il potere fissa gli archi di possibilità (la cornice) entro cui gli altri devono adattarsi, e chi “esce” subisce la riprovazione di tutti gli altri, non solo di chi è al potere.
Nello stesso convegno Humberto Maturana ha aggiunto che «in biologia non la razionalità, ma i contrasti di premesse sono il linguaggio basilare». In assenza di questo linguaggio che opera per mutua modulazione fra campi fenomenici che rispondono a premesse divergenti, la vita non sarebbe mai nata sul nostro pianeta. Questo vale anche a maggior ragione sul piano sociologico e sociale.
Tutte le competenze di base del professionista inclusivo, ascolto attivo, autoconsapevolezza emozionale, gestione creativa dei conflitti, sono rappresentabili graficamente come delle “bisociazioni”, ovvero come una modalità di comunicazione che accoglie i paradossi e trasforma i contrasti di premesse in intelligenza plurale. Questo è l’anello evolutivo che manca al professionista escludente e gli impedisce di capire che l’approccio “bisociativo” (termine coniato da Arthur Koestler nel suo fondamentale L’Atto della Creazione) è molto più interessante, divertente ed efficace della comunicazione unidirezionale. Questo implica idee diverse anche sulla scienza e sulla democrazia. Mentre le basi scientifiche del “Io so, tu non sai” sono chiaramente riduzionistiche, quelle della moltiplicazione dei punti di vista fanno riferimento ai sistemi aperti, alla cibernetica, alla fisica dei quanti. E in democrazia, a una concezione della stessa in cui i cittadini per decidere le loro preferenze ricorrono normalmente al dialogo e al confronto creativo, e solo occasionalmente e quando strettamente necessario al voto e al conteggio delle percentuali.
Ma una cosa è asserire quanto sopra e un’altra è seguire al microscopio e rallentatore un processo in cui questo avviene veramente. I prossimi paragrafi sono dunque dedicati a descrivere in modo alquanto circostanziato, “il mestiere della facilitatrice/tore”, cioè di quella nuova figura professionale che ha il compito di garantire che le parti in causa possano incontrarsi in contesti di mutuo apprendimento e di aiutarle a farne l’uso migliore possibile. Cioè più creativo e corrispondente al reciproco gradimento.
Le dinamiche del Confronto Creativo: al microscopio e al rallentatore.
Svolgo questo racconto come se mi avessero dato l’incarico di facilitare una soluzione creativa del conflitto. All’inizio abbiamo tre posizioni contrapposte, chi propone l’inserimento del metodo Montessori nella scuola, chi è contro perché troppo arretrato e chi contro perché troppo avanzato. Poi abbiamo le giovani insegnanti che si sono mobilitate per ottenere la qualifica di docente Montessori, le quali hanno anche loro delle loro idee e aspirazioni. Primo passo: costruire un contesto, un “contenitore”, in cui i portavoce di queste quattro posizioni ed eventualmente di altre espresse da chi ha a cuore il futuro della scuola, possano trovarsi fianco a fianco per seguire tutti assieme un percorso che ha delle precise tappe, che sono: 1. ascolto attivo reciproco; 2. moltiplicazione delle opzioni; 3. co-progettazione creativa.
Trovarsi “fianco a fianco” significa che non c’è chi deve difendere una posizione data e chi la contesta, non ci sono guardiani di archi di possibilità già stabiliti e smantellatori degli stessi, ma una pluralità di attori che illustrano le proprie posizioni divergenti come contributo per capire tutti meglio di cosa si sta parlando. Tutti i partecipanti sono esploratori di mondi possibili e l’arco delle possibilità è aperto con la sola condizione che la meta deve essere un progetto implementabile.
Fase dell’ascolto attivo reciproco: ognuno cerca di capire le posizioni dell’altro assumendo che sia intelligente e che abbia delle buone ragioni; questo implica uscire dagli stereotipi e rendersi conto che quando si parla, per esempio, di “metodo Montessori”, con grande probabilità ognuno ha in mente immagini e particolari diversi. Quindi le domande sono, per esempio, del tipo: quali sono gli aspetti di questo approccio che ti sembrano più interessanti e che ti sembrano carenti nella scuola attuale? Quali sono gli aspetti specifici della scuola attuale che rendono impossibile un buon inserimento del Metodo? E così via. In questa fase l’unica interlocuzione consentita è la domanda per capire meglio, mentre è esclusa la discussione sui pro e contro di ogni singola posizione. Come nel brainstorming, chi dissente è invitato a proporre la sua idea alternativa. Si tratta di mantenere un clima in cui ognuno è percepito prima di tutto come una persona speciale e unica con una propria storia e possa trasmettere senza timori di essere criticato, i valori, le preoccupazioni e l’entusiasmo che stanno alla base delle proprie proposte, idee e suggerimenti. Quello che le persone dicono viene sintetizzato su un poster o una lavagna, possibilmente con la tecnica della visualizzazione e al termine della sessione si dedica un momento di riflessione a questo quadro sinottico e ci si domanda: dove dobbiamo cercare per trovare delle proposte che consentano di andare incontro alla maggior parte di queste idee e preoccupazioni? Questa domanda sancisce l’emergere di quella che è stata chiamata “intelligenza collettiva” o “intelligenza plurale” e ci introduce sulla soglia della tappa seguente, l’esplorazione e ulteriore moltiplicazione delle opzioni.
La esplorazione delle opzioni “in uno spirito di equità” rimanda all’immaginazione, creatività, patrimonio culturale di ognuno, ma il suo asse portante è la ricerca di esperienze già in atto (“buone pratiche”) in cui i desiderata emersi siano già stati in buona parte messi in opera. Oggigiorno, con internet e la possibilità di proiettare immagini, video, interviste, l’accessibilità di queste esperienze è incomparabilmente facilitata. Nel lavoro di scambio di queste “scoperte”, di solito di per se stesso molto piacevole, non di rado emergono nuove idee che si rivelano risolutive per passare alla fase successiva della co-progettazione creativa.
Vediamo adesso quali sono le tipiche difficoltà e resistenze che si presentano in ognuna di queste tappe o fasi e come il facilitatore riesce ad aiutare i partecipanti a farvi fronte. Si tratta di un savoir faire che pur essendo posseduto magistralmente dai facilitatori, deve essere idealmente conosciuto e riconosciuto da ogni abitante del pianeta globalizzato e parte della cassetta degli attrezzi di ogni professionista inclusivo.
I “trucchi del mestiere” per navigare nella complessità.
Per prima cosa è necessario stabilire un rapporto di fiducia personale fra tutti gli attori in gioco. Qui lo strumento principale è l’ascolto attivo con cui la facilitatrice/tore approccia ognuno di loro, facendosi personalmente garante che non si tratta di stabilire chi ha ragione o chi ha torto, ma di permettere a ognuno di capire meglio le reciproche preoccupazioni e punti di vista. L’adesione dei partecipanti alle regole del gioco, è ciò che costituisce il “contenitore” dell’incontro. Da questo momento in poi il ruolo della facilitatrice è quello di una specie di nocchiero che deve garantire la tenuta della rotta in un mare sempre molto mosso. Nel corso della prima tappa c’è il problema di aiutare i partecipanti, in gran parte col proprio esempio e con il ricorso alla parafrasi, a passare da un atteggiamento giudicante a uno di ascolto attivo e a formulare domande maieutiche, che attivano negli interlocutori un senso di autostima e la voglia di tirar fuori il meglio di se stessi.
Nella fase della moltiplicazione delle opzioni, le difficoltà principali sono di due tipi. La prima è che il compito appare impossibile, nessuno degli originali progetti è adeguato e nessuno sa cosa altro proporre. Qui torna prezioso un suggerimento di Kurt Lewin (l’inventore della ricerca-azione): quando si ha di fronte un problema sistemico è inutile intestardirsi a risolverlo, quello che si deve fare è cambiare punto di vista: passare dal problem solving al problem setting. A questo fine la discussione sugli ostacoli e sui vincoli va sospesa e sostituita con l’elaborazione collettiva di una visione di futuro desiderabile (quasi sempre già presente nella sintesi della tappa precedente) che diventa la guida per la ricerca di idee e buone pratiche di mutuo gradimento. L’altra difficoltà è l’ansia di arrivare a delle conclusioni, il timore che la moltiplicazione delle opzioni faccia perdere tempo e confonda le idee. A questo proposito è molto utile un po’ di umorismo, il clima giocoso della ricerca e qualche esempio su come in situazioni analoghe, proprio quando si stava per disperare, la soluzione inedita è apparsa.
Dalle spiegazioni soporifere agli incidenti critici
Infine nel passaggio alla co-progettazione la difficoltà principale può essere sintetizzata in una domanda: in cosa consiste e come funziona l’operatività del progetto che ci interessa e come possiamo rendere quel know-how trasferibile? Il funzionamento di un sistema complesso non è lineare e unidirezionale, ma circolare e creativo. È specialmente in questa fase che si tocca con mano l’assenza nel pensiero dominante occidentale del gusto e savoir faire dell’operatività creativa, sostituiti da una attitudine che Gregory Bateson chiama “spiegazione soporifera”.
Esempi di spiegazioni soporifere molto comuni nel nostro dibattito pubblico sono del tipo: “la ricostruzione post-terremoto è bloccata per colpa della burocrazia” (oppure: a causa della casta, del capitalismo, del ministero, dell’egoismo umano ecc.). O viceversa: “questa scuola funziona in modo eccellente per merito di una direttrice didattica molto brava” (oppure: per la sua capacità di leadership, ha studiato alla Bocconi, sa come trattare la gente, ecc.).
Queste spiegazioni non sono “sbagliate”, sono tautologiche, astratte, non dicono nulla di specifico su cosa bisognerebbe cambiare e cosa valorizzare. Il contrario della spiegazione soporifera è l’approccio basato sugli “incidenti critici”. Il passaggio dall’una all’altro richiede di volgere l’attenzione dai “comportamenti in generale” a delle specifiche, concrete e contingenti situazioni critiche, di crisi. La “direttrice brava” (descrizione soporifera) cosa ha fatto di diverso rispetto a una direttrice “normale” in una situazione critica analoga (descrizione non soporifera)? Ecco un esempio. I bambini di un’ottima scuola elementare pubblica di Roma all’uscita alle quattro del pomeriggio vogliono rimanere nel cortile a giocare tra loro. Una direttrice “normale” direbbe: «Non posso dare il permesso. Non ci sono più i bidelli e se si fanno male la responsabilità sarebbe mia». Anche la direttrice “in gamba” ha detto questo, ma poi rivolta ai genitori e nonni ha aggiunto: «Cosa facciamo?». Ha mantenuto aperta la esplorazione di altre soluzioni. Un genitore ha detto: «Mi informo se possiamo assicurarci come genitori». Era possibile, si sono organizzati e così si è risolto il problema. In sintesi, governare nella complessità richiede: qualcuno che apre l’arco delle possibilità, qualcun altro che accetta di collaborare e la capacità di mettere in atto le soluzioni trovate o inventate. L’operatività creativa procede in contesti caratterizzati dalla circolarità delle reazioni alle reazioni che portano per successive auto-correzioni a un esito o a un altro. È osservando questa circolarità che possiamo ricavare delle generalizzazioni relative agli archi di possibilità e riflettere sulle cornici di cui si è parte.
Per finire aggiungo che nel caso del rapporto fra metodo Montessori e scuola di stato italiana, come facilitatrice avrei proposto di organizzare delle visite sia a una normale ottima scuola Montessori sia ad alcune scuole pubbliche in cui questo metodo è già stato inserito. Visite predisposte per interrogare i luoghi e le persone nell’ottica degli incidenti critici. E non mi meraviglierei se lungo il cammino, emergessero delle idee più ambiziose su come ripensare la scuola e il sistema scolastico italiano, in modo che i futuri adulti che la frequentano vengano a conoscenza delle abilità di base della complessità e ne escano già almeno in parte vaccinati contro il dilagante chiacchiericcio soporifero.
Conclusioni: una trasformazione già in atto
La democrazia deliberativa offre una via di concreto superamento di queste dicotomie, sia a livello epistemologico che del tessuto sociale. A livello epistemologico, in quanto il presupposto da cui la DD parte è che l’unico modo per passare dal complicato al semplice è lasciare emergere la complessità e saperla valorizzare. A livello del tessuto sociale, moltiplicando i contenitori dialogici che affondano le radici nella maieutica socratica, ma che nelle turbolenze congenite del mondo contemporaneo possono imporsi solo se sorretti dai saperi, competenze e dispositivi della facilitazione e del confronto creativo.
Lo schema di quest’ultimo paragrafo procede così: per prima cosa un quadro sinottico sui diversi significati dell’espressione “ordine sociale” in una società gestibile come sistema semplice oppure come sistema complesso. Poi, alcuni esempi di Confronto Creativo già in atto nella governance dei territori e delle città. Infine, un ultimo quadro sinottico sui tratti salienti del nuovo frattale in embrione.
Le differenze evidenziate qui sotto nel grafico 5 (che si aggiunge e completa i quattro grafici della Prima Parte di questo scritto), sono tutte tendenze già in atto nel campo giuridico e giudiziario nelle pratiche di governance, negli istituti scolastici, nelle famiglie. Nella colonna di sinistra trovate le parole chiave della vecchia imbragatura, in quella a destra quelle relative al modo di operare secondo la logica dei sistemi aperti, della comunicazione circolare, della autocorrezione e mutua modulazione. Su queste trasformazioni, questi passaggi dall’ “Old Power” al “New Power” (J. Heimans & H. Timms, 2020) la letteratura è ormai chiara e abbondante. Il crowdsourcing, cioè il ricorso al patrimonio di saperi variegati e diffusi per informarsi ed elaborare soluzioni più adeguate, è il nuovo modo intelligente di stare al mondo. L’importanza dei contesti locali nella costruzione del senso e della realtà, non è più eludibile. Dal punto di vista della governance del territori e delle città, è importante sottolineare due modalità diverse e complementari di ricorso al crowdsourcing.
La prima consiste in un soggetto, un agente che via Internet si rivolge a tutti coloro che sono interessati a un certo tema o problema su un determinato territorio per chiedere la collaborazione di ognuno singolarmente. La seconda è un invito alla collettività a mobilitarsi e agire in modo gruppale, sempre su un certo tema o problema.
Un esempio molto interessante della prima modalità di crowdsourcing è in atto nel giornalismo. Come ha dichiarato il direttore del giornale olandese online De Corrispondent, «le persone fino a questo momento definite “pubblico” rappresentano la più grande fonte di conoscenze, competenze ed esperienze cui abbia accesso un giornalista. Eppure per più di un secolo e mezzo questa risorsa è stata poco sfruttata». Sono molti ormai i giornali, compresi The Guardian e il Washington Post che stabiliscono con i propri lettori rapporti di collaborazione redazionale e di raccolta sistematica di informazioni, come l’iniziativa di invitare ogni lettore a intervistare un rifugiato, o i dipendenti della Shell a parlare del rapporto fra le loro mansioni e le politiche della corporation. Un analogo esempio in campo industriale è quello della Toyota, dove, come racconta in un articolo sulla “impresa integrale” Federico Butera, in un anno i 350.000 dipendenti hanno suggerito 740.000 proposte di miglioramento effettivamente realizzate (ossia due proposte approvate per ogni dipendente), e dove la valorizzazione dell’agire artigiano dentro una impresa gigantesca si traduce, fra l’altro, nel riconoscere ad ognuno la work authority di poter fermare un processo difettoso (anche una catena di montaggio), il che costringe tutti ad accorrere quando sorge un problema.
Questo è il tipo di aneddotica di cui si nutre questo nostro secolo scoprendo così la propria e nostra nuova identità. Ognuno è un “maker”, “change agent”, un “practitioner”, tutti termini in sintonia con l’approccio degli incidenti critici, con un’idea della progettazione flessibile, connessa, attuabile, adattabile, dialogica.
Ma la modalità più costruttivamente dirompente è quando il crowdsourcing si coniuga col confronto creativo. Mi soffermo qui solo su una di queste applicazioni: la stesura dei regolamenti attuativi delle leggi da parte della pluralità dei diretti interessati (la “reg neg” ovvero negotiated regulation, statunitense), perché mi capita di conoscere personalmente un paio di facilitatori professionisti che con i loro collaboratori hanno istruito processi partecipati di stesura di regolamenti relativi a leggi alquanto complesse e controverse, come la costruzione di un deposito di scorie nucleari nella zona della Yucca Mountain nel Nevada (Howard Bellman) e la regolamentazione per la sicurezza sul lavoro nei cantieri e impianti dove si usano gru giganti (Susan Podziba), e davanti agli esiti incredibilmente positivi in termini sia di accordo fra parti sia di efficacia nella implementazione, non posso fare a meno di pensare a quanto un procedimento del genere sarebbe utile in Italia.
I vantaggi del reg neg, sottolineati dai suoi promotori, sono: 1. reg neg offre alle parti la partecipazione diretta alla stesura delle norme; 2. i facilitatori/mediatori sono più attivi nel coinvolgimento delle parti interessate di quanto avviene nelle normali procedure; 3. le parti sono impegnate direttamente nel merito del processo decisionale invece che essere sentite in qualità di esperti; 4. i costi e tempi della partecipazione sono ridotti perché le parti non hanno bisogno di predisporre gli incartamenti “difensivi” (non è necessario fare appello al Tar); 5. la qualità della partecipazione è più ricca, in quanto le parti sono in un contesto che le incentiva a esplicitare le proprie riserve e preoccupazioni; 6. un processo reg neg è positivo anche quando non si raggiunga il consenso completo, in quanto riesce comunque a chiarire i termini della questione e a mettere meglio a fuoco i termini del dissenso.
Siamo ancora in fase di sperimentazione su tutto questo, ma le sperimentazioni si stanno moltiplicando e stanno diventando ogni giorno più numerose e creative, e un numero sempre più vasto di cittadini del mondo, in ogni continente, sta cliccando alla loro ricerca. Sotto la spinta della crisi pandemica globale, milioni di persone si stanno guardando attorno e stanno imparando prima di tutto, come disse la ragazzina membro del CCC che ho citato in precedenza, nella Parte I, «ad ascoltare, a dibattere e che esiste l’intelligenza collettiva». Per consolidare questi apprendimenti può essere utile anche quest’ultimo quadro sinottico, che illustra le caratteristiche del nuovo frattale, che rende naturale e semplice questo tipo di relazioni e di protagonismo a tutti i livelli, da quelli interpersonali alla governance dei territori, locali e internazionali. È il nuovo stile emergente dello stare felicemente al mondo.